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GMG 2016 Cracovia



Testimonianze dei ragazzi...

Gloria (1999)

Dal 19 Luglio all'1 Agosto abbiamo avuto l'opportunità di partecipare alla Giornata Mondiale della Gioventù (GMG), una manifestazione stupenda che avviene ogni 3 anni dove si incontrano tantissimi giovani di varie comunità cristiane da tutto il mondo; quest'anno si è tenuta a Cracovia. Noi di Poviglio eravamo un piccolo gruppo e quindi ci hanno unito alle parrocchie di Castelnovo di Sotto e Cadelbosco di Sopra. Nella prima settimana siamo stati ospitati da famiglie della comunità di Włodary e Rynarcice a 40 km da Cracovia, mentre nella seconda, l'abbiamo trascorsa nelle famiglie di Mokrzyska, un paesino a circa un'ora da Cracovia.

Il gemellaggio con Włodary e Rynarcice:

Per noi ragazzi il gemellaggio è stato veramente fondamentale perché abbiamo avuto la possibilità di conoscere, in modo più approfondito, delle famiglie che hanno cercato di non farci mai mancare nulla, anche se avevano poco da offrirci. Sono sempre stati cordiali, disponibili, gentili con ognuno di noi. Spesso con le persone anziane e i bambini si comunicava attraverso i gesti perché non conoscevano l'inglese. I giovani ci hanno insegnato alcune parole polacche come: "CZESC" che significa CIAO, "DZIEN DOBRY" in italiano BUONGIORNO, "DOBRANOC" BUONA NOTTE e altre. Durante questa settimana abbiamo visitato coi giovani del posto santuari, monumenti, chiese dei paesi limitrofi: tutto ciò ci ha permesso di conoscere gli altri ragazzi delle due parrocchie ospitanti a cui la diocesi reggiana ci ha unito e di consolidare i rapporti tra noi giovani di Poviglio, Castelnovo, Cadelbosco. Questo è stato un fattore veramente importante per la settimana successiva che ha reso possibile il farci vivere la GMG intensamente e come un vero gruppo. Ringraziamo di cuore tutti coloro che ci hanno accolti a braccia aperte e con un solo sorriso, un saluto, una chiacchierata, pasti a qualsiasi orario, rendendo così questo gemellaggio indimenticabile.

GMG e PAPA FRANCESCO:

A causa delle tempistiche brevi e delle lunghe distanze da percorrere a piedi, in pullman, in treno, in autobus, la seconda parte di viaggio è stata molto caotica. In compenso abbiamo incontrato tantissimi italiani e tanta gente proveniente da qualsiasi parte del mondo, ad esempio Messico, Stati Uniti d'America, Francia, Spagna, Inghilterra, Angola... Tutto quell'entusiasmo, quell'allegria che ogni nazione esprimeva attraverso cori, canti era travolgente. Capita solo in queste occasioni che così tanti giovani di nazionalità differenti si incontrino e si uniscano con la voglia di compiere un'unica azione: PREGARE. Essendo il 2016 l'anno della Misericordia, il tema di questa Giornata Mondiale della Gioventù non poteva non essere che quello: MISERICORDIA, perdono, aiuto del prossimo... Su questo argomento abbiamo avuto la possibilità di riflettere e di interagire durante le catechesi tenute al Santuario di Szczepanòw insieme al Vescovo di Brescia, Mons. Berschi, all'Arcivescovo di Bologna, Mons. Zuppi, al Vescovo della nostra diocesi, Mons. Massimo Camisasca, ma soprattutto insieme a Papa Francesco durante la sua Accoglienza, la Veglia e la Messa al Campus Misercordiae di Cracovia. È veramente impressionante come il nostro PAPA possa trattare certi argomenti utilizzando un linguaggio così giovanile, trasmettendo un'energia, una forza, una carica che solo chi crede veramente in ciò che dice ci riesce. Il momento più affascinante di tutto il viaggio è stato la Veglia serale. Sono state 2 ore veramente intense di preghiera, di riflessione, di silenzio e di ascolto del Papa; questo momento si è concluso con la distribuzione delle candele e con la loro accensione: suggestivo il guardarsi intorno e vedere tutto il Campus Misericordiae illuminato.
La Messa finale con un milione e seicentomila giovani ha chiuso questa esperienza della GMG che nella sua interezza ha acceso in noi una scintilla di fede che dobbiamo trasformare in fuoco che non si spegne mai.


Margherita (1998)

Prima di partire per quest'avventura non ero del tutto convinta di saper apprezzare il tipo di esperienza, pur non essendo stata molto documentata a riguardo. Sapevo che avrei condiviso i 14 giorni di permanenza con persone che non conoscevo, provenienti da paesi vicino al mio, ma anche molto molto più lontani. Sapevo anche che ci sarebbero stati momenti di riflessione, preghiera, catechesi e, come ogni GMG prevede, avremmo "incontrato" il Papa.

Mi era parsa come un' occasione alternativa, qualcosa che non avevo mai fatto prima, così ho deciso di non pensarci troppo su e iscrivermi. Ora, che il tutto si è concluso, posso dire di aver preso la scelta giusta, perchè quando lo senti, di dover partire, non servono lunghe meditazioni, si và e basta! I ricordi più significativi sono, prima di tutto,gli incontri, sia con persone italiane che di altre nazionalità, questo mi ha aperto un pò gli occhi: si va ben oltre le differenze di cultura, lingua o del colore della pelle , quando vivi in mezzo ad altri due milioni di giovani di ogni provenienza. Basta un gesto, un battito del cinque, una canzone cantata insieme, non serve di più, il bello sta proprio nella semplicità!

Altra cosa , per la quale terrei anche a ringraziare, è l'ospitalità delle famiglie che ci hanno accolto volontariamente la prima settimana, e dei polacchi in generale, tutti si sono impegnati al fine di farci sentir accolti, senza chiedee nulla in cambio, credo che questa sia stata una bella lezione: chiedere meno e dare di più, il segreto per una buona condivisione.

Infine, le parole del Papa: ha incitato i giovani a non "vegetare", un rischio frequente che , effettivamente, ruba tempo prezioso.Lasciare le comodità e darsi da fare per migliorare la nostra vita e quella del prossimo. Non "vegetare", lamentarsi, criticare, esigere senza dare, pensare invece ad agire ,credere in qualcosa per cui valga la pena vivere stando "scomodi". Cercare la felicità, la gioia nella scomodità, perchè è lì che spesso si trovano, non stando seduti su comodi divani. Ci tengo a ricordare questi pensieri che mi hanno toccata nel personale, cambiando il mio modo di affrontare le difficoltà.


Giovanni (1998)

L'inno alla GMG 2016 narra della discesa di un Dio dalla sua immensità in nostro aiuto...

Anche noi pellegrini possiamo narrare della nostra discesa: quella dal pullman una volta arrivati al villaggio di Opole. Personalmente non ero mai stato in Polonia e il gemellaggio con le famiglie mi ha permesso di notare molte qualità di quel popolo (mitezza, accoglienza, la silenziosità e la stretta coerenza con le proprie tradizioni ed usanze di stile, musiche, cibo).

Un secondo ed ultimo pensiero vorrei rimandarlo al fatto che nonostante la polonia sia un piccolo staterello talvolta anche scomparso dalla carta europea, da quest'estate susciterà in molti ragazzi numerosi ricordi ed emozioni per lunghi anni.

 


Storie...

Gino Bartali

Il ciclismo ti insegna la resistenza. Ci siete tu e la tua bici. Lei e i vostri limiti. Sotto, la strada. Una strada che è facile quando corre veloce, che fa arrabbiare quando sale ripida, e che con la testa ti tiene lì, a impartire ordini ai tuoi muscoli, alle tue gambe stanche, dritto verso il tuo obiettivo.

"Ginettaccio" Bartali, con la bici, ci passa tutte le estati: lui, suo fratello e le strade della campagna fiorentina. Entrambi campioni delle due ruote, Gino e Giulio si appassionano insieme a questo sport. Forse il più bravo in realtà è pure Giulio, ma per loro il destino aveva immaginato sorti decisamente differenti. Il 1936 è l'anno della consacrazione a campione italiano di Gino, grazie alla vittoria alla competizione della Corsa Rosa. Lo stesso anno è quello fatale per il fratello Giulio, in gara con un gruppo dilettantistico e coinvolto in un tragico e mortale incidente.

Sono eventi che fanno riflettere e Gino, che ha ventitré anni, è polemico, chiuso e scontroso. In questo momento medita anche di abbandonare la disciplina. Non lo farà, ma sicuramente questo evento imprime in lui un modo nuovo di guardare ai fatti della vita.

La carriera da professionista lo consacra campione svariate volte, tra Giri d'Italia e Tour de France, cadute e risalite nuovamente in sella a quella bici. È durante il terzo Giro che nasce anche quella amicizia con Fausto Coppi, che Bartali stesso aveva voluto come gregario.
"Coppi sei un acquaiolo!" È il momento finale di quel Giro di Italia del 1940. Coppi è in forte sofferenza fisica, dovuta alla stanchezza fisica e alla tappa, particolarmente ardua. Sta per scendere dalla bici per rinunciare alla vittoria, ma Bartali, in vantaggio, torna indietro per motivarlo fino alla fine. Chi non si impegna fino al termine, sosteneva, non è un vero ciclista ma soltanto un portatore d'acqua, un gregario insomma, non sicuramente un campione. Coppi, dello stesso team di Bartali, e grazie a lui, vinse quell'ultimo Giro d'Italia prima della guerra.

Fino a quel momento era stata dura la strada da fare in sella, ora dura diventava anche la strada della vita, costellata da eventi bellici, stop alle gare, arruolamenti forzati. E, per altri, le persecuzioni, le deportazioni, lo sterminio. Coppi mandato al fronte, Bartali costretto a riparare biciclette.

Ma è un Bartali diverso, quello del periodo bellico: più maturo, cresciuto nel fisico e nella persona. Il giovane Ginettaccio è diventato un consapevole Gino, ha sviluppato un carattere da campione vero, forte sulle due ruote ma anche potente nelle virtù umane. E così decide. A gambe così potenti e a un fiato così allenato non si può imporre di fermarsi.

È l'autunno del ʻ43. D'accordo con il rabbino di Firenze Nathan Cassuto e l'arcivescovo della città Elia Angelo Dalla Costa medita un modo per utilizzare una delle cose che gli riusciva così bene, come la corsa in bici, per trasportare all'interno del telaio da Assisi a Firenze documenti falsi per permettere agli ebrei di espatriare nei paesi neutrali, come la Svezia, dove avrebbero trovato la salvezza. 185 chilometri al giorno percorsi a proprio rischio. In nessuna gara la strada era stata tanto ripida così come in salita è la missione che il campione si impone di portare avanti. Mai tanto pericolosa. Nelle gare normali rischi di cadere. In questa lotta –contro il tempo- essere scoperti significava perdere la vita. Bartali viene anche fermato dalle forze armate fasciste, una volta. Perquisito e lasciato andare. La bici? Neppure controllata.

Finita la guerra ricominciano le gare sportive. A 38 anni Bartali vince l'ultimo suo grande titolo. Poi il ritiro. Oggi è conosciuto e ricordato come il gande campione delle due ruote, immortalato mentre passa la sua bottiglietta d'acqua a Fausto Coppi, entrambi di nuovo in pista nel Tour de France del 1952. La sua storia da campione nella vita, quello che durante la guerra salva 800 ebrei dalla deportazione e dalla morte invece, verrà resa nota solo negli ultimi anni dal figlio di Bartali, Andrea. Come amava ripetere Gino, "il bene si fa ma non si dice".


Lorenzo Perrone

È l'agosto del '44 nell'Alta Slesia. Primo Levi è un chimico originario di Torino, deportato ad Auschwitz dall'inizio dell'anno. È un'estate particolarmente afosa, e Levi è stato incaricato di costruire un alto muro di cinta, un'altra di quelle barriere che rendevano la reclusione ancora più sofferta. Come se le limitazioni alla libertà personale, gli orari di lavoro estenuanti, la tensione sempre alle stelle non bastassero.

Il muro serve perché il campo di concentramento inizia ad essere affollato, gli spazi angusti lasciano sempre meno intimità, al fisico ma anche alla mente. Una mente, quella del chimico, che lavora incessantemente, che si pone domande, che ritorna sempre più frequentemente agli affetti famigliari, come dolci Madeleine che in parte alleviano le sofferenze della lontananza da casa, dalle voci note, dai quei modi di dire che a un certo punto diventano proprio tuoi, come le inflessioni dialettali.

Sarà la voglia di normalità, di quotidianità, di casa, che a un certo punto avrà fatto pensare a Primo Levi di avere le allucinazioni. In un paese straniero, nella confusione, in mezzo a tanti volti sconosciuti, sente una voce, un ordine impartito preciso a un sottoposto. Dall'altra parte del muro. In italiano. No, no: addirittura in piemontese. Scatta l'istinto di sopravvivenza: Primo Levi si avvicina. Inizia a parlare. In italiano. No, in piemontese.

Lorenzo Perrone era nato a Fossano, in provincia di Cuneo. Ad Auschwitz, nell'estate del '44, si trova perché lavora per la ditta Boetti. È un abile muratore, così come lo sono i ragazzi della sua equipe, e il suo incarico in questa calda estate è quella di coordinare i lavori dell'allargamento del campo di concentramento.

A chi lavora attorno ad Auschwitz non è permesso vedere quello che accade all'interno delle mura, forse in tanti casi si preferisce addirittura non sapere. I lavori fino a quel momento procedono bene, nel rispetto delle tempistiche, sempre sotto l'occhio attento degli ufficiali tedeschi. Il clima di rigore vige dentro, come fuori dal campo. Lorenzo sente da lontano qualcuno che lo chiama. Si guarda attorno, coglie uno sguardo, una mano che si agita. È anche controllato a vista dalle SS. Finge un giro di ricognizione, proprio là, in quella parte di muro che richiede una particolare attenzione, un pezzo di muro importante perché in un punto critico del campo. Si avvicina e sente parlare. In italiano. No, in piemontese.

Lorenzo Perrone, là dove si stavano innalzando mura, diventa per Primo Levi breccia.

Lorenzo breccia attraverso la quale sopravvivere fisicamente: Lorenzo non farà mai mancare a Primo Levi, passandogliela da una parte all'altra del muro, porzione del rancio che è destinata a lui, cibo rubato dalle cucine, acqua fresca, minestra appena fatta. Gli procurerà maglie per scaldarsi, scarpe per coprirsi.

Lorenzo breccia attraverso la quale passa aria pura: la famiglia, sempre presente nella mente del prigioniero, diventa presente anche concretamente quando arrivano le lettere e i pacchi, attraverso la corrispondenza che Perrone gli recapiterà. Grazie a lui la madre Anna Maria e la sorella Ester, che vivono nascoste, riescono a recapitare a Levi dall'Italia un paco contenente cioccolato, biscotti, latte in polvere, abiti.

Lorenzo breccia attraverso la quale metaforicamente osservare l'orizzonte: è il futuro, la speranza di salvezza, di un ritorno in patria. Lorenzo è la forza per resistere, la speranza contro la disperazione del lager.

A poco a poco il fronte si avvicina e i lavoratori italiani devono essere rimandati a casa. L'ultimo incontro fra Primo e Lorenzo, e il saluto tra i due, avviene dopo un pesante bombardamento alleato, quando Lorenzo si scusa perché nella sua minestra è finito del fango dopo l'esplosione di una bomba, ma non fa pesare il fatto di essere rimasto ferito a un timpano.

Lorenzo e Primo sono costretti a separarsi, ma ciò che li unirà indissolubilmente sarà l'eterna gratitudine di Primo Levi nei confronti dell'amico, del quale, dice il chimico-scrittore, non scorderà mai "il suo modo così piano e facile di essere buono" . Trasmetteva, attraverso i suoi gesti, l'idea che esistesse ancora un mondo lontano dalla paura e dalla angoscia dei campi di concentramento. Lorenzo era quel qualcuno che gli rammentava quotidianamente che non tutta l'umanità era divisa tra vittime e carnefici, ma che esisteva una parte di mondo ancora buona e incontaminata, in grado di darsi altruisticamente a favore di chi è più fragile. E di fronte all'annichilimento della persona voluto dalle forze SS, Lorenzo Perrone riuscì a ricordare perennemente a Primo Levi il suo valore di essere un "Uomo".

 


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